Con sentenza del 27 maggio 2020 n. 100 la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità dell’art. 192 del Codice che conferisce ad Anac il potere di verificare la legittimità degli in house .
Si riporta testualmente il corpo della sentenza nella sua parte cruciale ” È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione. La costante giurisprudenza della Corte costituzionale riconosce al legislatore delegato margini di discrezionalità e la necessità di tener conto del quadro normativo di riferimento (sentenze n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013), specie quando la delega «riguardi interi settori di disciplina o comunque organici complessi normativi» (sentenza n. 10 del 2018; nello stesso senso, sentenze n. 229 del 2014 e n. 162 del 2012). Quest’ultimo criterio interpretativo è particolarmente calzante nel caso in esame, in cui si è in presenza di un “codice”, che, come è tipico di tale corpo normativo nell’ambito amministrativo, nell’adeguare la normativa nazionale alle direttive europee, si prefigge anche lo scopo di razionalizzare una disciplina di settore stratificatasi nel tempo. La norma delegata, in effetti, è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali, come emerge dalla relazione AIR dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), relativa alle Linee guida per l’istituzione dell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house, ai sensi dell’art. 192 del codice dei contratti pubblici.
Già l’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e poi abrogato a seguito di referendum, richiedeva, tra le altre condizioni legittimanti il ricorso all’affidamento in house nella materia dei servizi pubblici locali, la sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato». L’onere motivazionale in questione, poi, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, non si discosta, nella sostanza, da quello imposto dall’art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221.
Quest’ultima disposizione, infatti, richiede l’indicazione delle «ragioni» dell’affidamento diretto dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, il rispetto della parità degli operatori e l’adeguata informazione alla collettività di riferimento, e ciò non può che essere letto come necessità di rendere palesi (anche) i motivi che hanno indotto l’amministrazione a ricorrere all’in house invece di rivolgersi al mercato.
L’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), che reca la rubrica «[o]neri di motivazione analitica», manifesta la stessa cautela verso la costituzione e l’acquisto di partecipazioni di società pubbliche (comprese quelle in house), prevedendo, nella sua versione attuale, che «l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica […] deve essere analiticamente motivato […], evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato». Si tratta di una scelta di fondo già vagliata dalla Corte, che – con specifico riferimento alle condizioni allora poste dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, ma con affermazioni estensibili anche al caso odierno – ha osservato: «[s]iffatte ulteriori condizioni […] si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano. Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato –, ma neppure si pone in contrasto […] con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princìpi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato» (sentenza n. 325 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2013). Si deve dunque concludere che la specificazione introdotta dal legislatore delegato è riconducibile all’esercizio dei normali margini di discrezionalità ad esso spettanti nell’attuazione del criterio di delega, ne rispetta la ratio ed è coerente con il quadro normativo di riferimento (tra le tante, sentenze n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013).”