“Deve essere rimessa alla Corte di giustizia le questioni: a) se osta al diritto comunitario una norma nazionale, come l’art. 33, comma 3-bis, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 che limita l’autonomia dei Comuni nell’affidamento ad una centrale di committenza a due soli modelli organizzativi quali l’unione dei comuni se già esistente ovvero il consorzio tra comuni da costituire; b) se osta al diritto comunitario, e, in particolare, ai principi di libera circolazione dei servizi e di massima apertura della concorrenza nell’ambito degli appalti pubblici di servizi, una norma nazionale come l’art. 33, comma 3 bis, n. 163 del 2006 che, letto in combinato disposto con l’art. 3, comma 25, dello stesso decreto, in relazione al modello organizzativo dei consorzi di comuni, esclude la possibilità di costituire figure di diritto privato quali, ad es., il consorzio di diritto comune con la partecipazione anche di soggetti privati; c) se osta al diritto comunitario e, in particolare, ai principi di libera circolazione dei servizi e di massima apertura della concorrenza nell’ambito degli appalti pubblici di servizi, una norma nazionale, come l’art. 33, comma 3 bis, che, ove interpretato nel senso di consentire ai consorzi di Comuni che siano centrali di committenza di operare in un territorio corrispondente a quello dei comuni aderenti unitariamente considerato, e, dunque, al massimo, all’ambito provinciale, limita l’ambito di operatività delle predette centrali di committenza (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 33, comma 3-bis, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 va letta nel senso che le amministrazioni aggiudicatrici previste dal Codice dei contratti pubblici del 2006, vale a dire le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da siffatti soggetti, possono assumere la funzione di centrale di committenza, con obbligo, però, per i Comuni (dapprima con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e, poi, non capoluogo di provincia) di rivolgersi a centrali di committenza configurate secondo un preciso modello organizzativo, quello dell’unione dei comuni di cui all’art. 32 del Testo unico degli enti locali qualora sia già esistente ovvero quello del consorzio tra i comuni che si avvale degli uffici delle province (nonché nell’ultima formulazione anche ad un soggetto aggregatore o alle province ai sensi della l. 7 aprile 2014, n. 56).
La disposizione sulle centrali di committenza che operano per i piccoli comuni appare, dunque, derogatoria rispetto alla regola generale, limitando il modello organizzativo utilizzabile a due soli schemi rispetto al più ampio novero di soggetti che, nella qualità di amministrazioni aggiudicatrici, potenzialmente possono assumere la veste di centrale di committenza. Il modello organizzativo del consorzio tra i comuni – tenuto conto della definizione di “amministrazione aggiudicatrice” dell’art. 3, comma 25, in cui il riferimento è ai “consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti” ovvero ai consorzi costituiti solamente tra soggetti pubblici – sembra richiamare una forma di cooperazione tra comuni di tipo pubblicistico, come quella prevista dall’art. 31 del Testo unico degli enti locali, che esclude la partecipazione di soggetti privati. Ciò comporta un’ulteriore limitazione del modello di centrale di committenza cui rimettere la funzione di acquisito di beni e servizi. La disciplina interna non definisce un ambito di operatività per le centrali di committenza né nelle disposizioni generali né nella disposizione speciale per i piccoli comuni; tuttavia, l’espresso riferimento ai comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti nell’originaria formulazione dell’art. 33, comma 3 bis, come pure ai comuni non capoluogo di provincia, nella formulazione più recente, ossia ad una connotazione territoriale degli enti aderenti, induce a ritenere che l’ordinamento interno si sia riferito a una corrispondenza tra il territorio dei comuni ricorrenti alla centrale di committenza e l’ambito di operatività della stessa. Quest’ultimo sarebbe limitato al territorio dei comuni compresi nell’unione dei comuni ovvero costituenti il consorzio.
Nella Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture 2004/18/CE era espresso il favore comunitario verso l’istituto delle centrali di committenza con implicito riconoscimento della possibilità di un più ampio ricorso ad esso. Nel considerando 15, infatti, si legge: “In alcuni Stati si sono sviluppate tecniche di centralizzazione delle committenze. Diverse amministrazioni aggiudicatrici sono incaricate di procedere ad acquisti o di aggiudicare appalti pubblici/stipulare accordi quadro destinati ad altre amministrazioni aggiudicatrici. Tali tecniche consentono, dato il volume degli acquisti, un aumento della concorrenza e dell’efficacia della commessa pubblica”; nel considerando 16, inoltre, si legge che: “Al fine di tenere conto delle diversità esistenti negli Stati membri, occorre lasciare a questi ultimi la facoltà di prevedere la possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere ad accordi quadro, a centrali di committenza, ai sistemi dinamici di acquisizione ad aste elettroniche e al dialogo competitivo, quali sono definiti e disciplinati dalla presente direttiva”.
La Corte di Giustizia delle Comunità europee, con sentenza 20 ottobre 2005, causa C-246/03 Commissione delle Comunità europee c. Repubblica francese, ha ritenuto (§44) il “mandato di committenza” ovvero l’incarico affidato ad una persona giuridica di acquistare in nome e per conto del mandante beni e servizi, come una prestazione di servizi ai sensi del diritto comunitario (e le committenze come “prestatori di servizi”) e (§61) la legge francese esaminata (l. 85-704, successivamente modificata), che riservava detta prestazione solamente a persone giuridiche di diritto francese tassativamente enumerate, in contrasto con il principio della parità di trattamento tra i diversi prestatori di servizi.
La nozione di “impresa” adottata dal diritto comunitario ai fini della concorrenza è ampia, tale da comprendere “qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle modalità di finanziamento” (Corte di Giustizia ue 12 dicembre 2013, nella causa C-372-12 Ministero dello sviluppo economico sull’attività delle SOA; sentenza 6 settembre 2011, nella causa C-108/10 Scattolon, e sin da Corte di Giustizia delle Comunità europee, 23 aprile 1991, nella causa C-41/90 Klaus Hofner e Elsen). L’“attività economica” è “qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato” (cfr. Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 25 ottobre 2001, nella causa C-475/99 Ambulanz Glöckner).
Una centrale di committenza è dunque, per il diritto euro-unitario, un’impresa che offre il servizio dell’acquisto di beni e servizi a favore delle amministrazioni aggiudicatrici.
La Sezione dubita che il quadro normativo interno, come precedentemente ricostruito, sia compatibile con i principi del diritto euro-unitario richiamati quanto alla scelta: a) di limitare l’autonomia organizzativa dei piccoli comuni a due soli modelli di centrali di committenza; b) di imporre ai piccoli comuni di ricorrere a modelli organizzativi solamente pubblicistici; c) di limitare l’ambito di operatività della centrale di committenza al solo territorio dei comuni presenti nell’unione dei comuni ovvero costituenti il consorzio. La scelta legislativa interna di imporre ai piccoli comuni di utilizzare quali centrali di committenza le unioni dei comuni se esistenti ovvero di costituire un consorzio di comuni sembra contrastare con la possibilità del più ampio ricorso alle centrali di committenza senza limitazione di forme di cooperazione. Infatti circoscrive i soggetti cui possono essere affidate funzioni di committenza, senza che ciò risulti adeguatamente giustificato dalla natura delle prestazioni, che non prevedono l’esercizio di prerogative pubblicistiche.
La scelta di ricorrere ad un modello organizzativo che esclude la partecipazione di soggetti privati, quale il consorzio di comuni di cui all’art. 31 del Testo unico degli enti locali, può apparire in contrasto con i principi euro-unitari di libera circolazione dei servizi e di massima apertura alla concorrenza, limitando ai soli soggetti pubblici italiani, tassativamente individuati, l’esercizio di una prestazione di servizi qualificabile come attività di impresa e che, in questa prospettiva, potrebbe meglio essere svolta in regime di libera concorrenza nel mercato interno.
La scelta di limitare l’ambito di operatività delle centrali di committenza che operano per i piccoli comuni al territorio comunale sembra, anch’essa, in contrasto con il principio di libera circolazione dei servizi e il principio di massima apertura alla concorrenza, poiché istituisce zone di esclusiva nell’operatività delle centrali di committenza.