L’emergenza Covid non consente di modificare il contratto andato in gara durante la pandemia: la indisponibilità alla stipulazione del contratto da parte dell’aggiudicatario a cause di sopravvenienze legate alla pandemia non premia.

Avv. Francesca Petullà

Lo ha mirabilmente stabilito il Tar Lombardia, Milano, Sez. I, nella sentenza del 27 aprile 2021, n.1052 in un caso in cui l’aggiudicatario intendeva subordinare la stipulazione del contratto a tre modifiche.

Il caso. Un’impresa, dopo essersi aggiudicata una gara d’appalto, si è detta disponibile a stipulare il contratto, ma a patto che venissero introdotte alcune modifiche dovute, a suo dire, alla crisi sanitaria. Nello specifico, sono tre le “richieste” avanzate alla Stazione Appaltante e precisamente:

  • la bozza di contratto non avrebbe contenuto alcun riferimento all’art. 207 del D.L. n. 34/2020, convertito con modifiche dalla L. n. 77/2020, che ha innalzato la percentuale dell’anticipazione dal 20% al 30%;
  • sarebbe stato necessario il riconoscimento di ulteriori costi della sicurezza previsti dall’art. 8 c. 4 lett b) del D.L. n. 76/2020;
  • ed infine, lo scioglimento del vincolo dell’offerta, ai sensi dell’art. 32 c. 8 D.lgs. 50/2016, in quanto la situazione dovuta all’emergenza sanitaria avrebbe determinato un’alterazione delle previsioni economiche e finanziarie che avevano condotto a produrre l’offerta. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 91 c. 1 del D.L. n. 18/2020, convertito nella L. n. 27/2020, l’offerta non era più attuabile, dal momento che l’imprevista onerosità avrebbe, a reso quelle condizioni, l’appalto “non più congruo e remunerativo”. Il Tar nel rigettare il ricorso ha ribadito che il provvedimento in autotutela dell’amministrazione con il quale la Stazione Appaltante ha revocato l’aggiudicazione, incamerato la cauzione provvisoria, richiesto il rimborso delle spese per la pubblicazione, e inviato la segnalazione all’ANAC. è legittimo.

Le fasi del procedimento e il titolo giuridico vantato. Per giurisprudenza costante, la fase che precede la stipula del contratto, e la sua esecuzione, resta infatti nel campo della giurisdizione del g.a. anche dopo l’aggiudicazione, che non equivale ad accettazione dell’offerta, e la cui efficacia, è comunque subordinata alla verifica del possesso dei requisiti (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, 7.6.2018, n. 3809). Le vicende che precedono la stipulazione del contratto, appartengono ancora alla fase pubblicistica, ed in presenza dei presupposti, legittimano, l’attivazione dei poteri di autotutela fatti salvi dall’art. 32, c. 8, D.Lgs. n. 50/2016, posto a fondamento del provvedimento oggetto del presente giudizio, spettando al g.a. la cognizione della controversia sull’impugnazione dei provvedimenti di revoca dell’aggiudicazione, emanati allorché il contratto non sia stato ancora concluso (T.A.R. Veneto, Sez. I, 16.10.2020, n. 952). Ai sensi dell’art. 32 comma 8 “divenuta efficace l’aggiudicazione, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione deve avere luogo entro i successivi sessanta giorni (…). Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, l’aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto. All’aggiudicatario non spetta alcun indennizzo”. Pertanto, detta norma si limita a riconoscere all’aggiudicatario la facoltà di sciogliersi dal vincolo contrattuale, nel termine ivi indicato, senza invece imporre alla stazione appaltante alcun divieto di revoca dell’aggiudicazione. Ed anzi, al contrario, il tenore letterale dell’art. 32 c. 8 cit. è inequivoco nel fare salvo “l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti”, che a loro volta, con riferimento a quanto disposto dall’art. 21 quinquies L. n. 241/90, consentono la revoca “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, per mutamento della situazione di fatto, nonché per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario”. Del resto è giurisprudenza costante quella che afferma il riconoscimento del potere di revoca dell’aggiudicazione definitiva, esercitato prima della stipula del contratto, è un dato incontestato anche in giurisprudenza (giurisprudenza costante CdS. Sez. V, 31.12.2014, n. 6455, 13.3.2017 n. 1138, 22.8.2019, n. 5780).

La questione: è possibile chiedere modifiche al contratto prima della stipulazione? Atteso quanto sopra ricostruito, la questione sottoposta ai giudici, verte di fatto sulla valutazione di un titolo vantato dalla ricorrente ad ottenere la modifica del contratto, in conseguenza della normativa emergenziale entrata in vigore successivamente all’aggiudicazione, ed in sostanza, la sussistenza dei presupposti del provvedimento di revoca sanzionatoria oggetto del presente giudizio, adottato in conseguenza del suo rifiuto alla stipula. Sul punto, il Collegio rileva che, in primo luogo, il comma 4 dell’art. 8 cit. subordina il riconoscimento die maggiori costi ivi indicati, “ai lavori in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore” del D.L. n. 76/2020, e cioè, al 16.7.2020, non essendo quindi applicabile alla fattispecie per cui è causa. Quanto all’incremento dell’anticipazione del prezzo da corrispondere all’appaltatore, di cui all’art. 207 cit., lo stesso non configura un suo diritto, quanto invece, una facoltà esercitabile dalla stazione appaltante (“può essere incrementato”), “nei limiti e compatibilmente con le risorse annuali stanziate per ogni singolo intervento a disposizione”. La ricorrente non ha peraltro documentato, e neppure affermato, che la mancata tempestiva disponibilità delle maggiori somme che, a suo dire, le avrebbero dovuto essere riconosciute dalla stazione appaltante, pari ad un incremento del 10% dell’anticipazione del prezzo, sia stata determinante, al fine di rendere antieconomica la stipulazione del contratto. Da ultimo, neppure con riferimento a quanto previsto nel comma 6-bis della L. n. 13/2020, la ricorrente ha offerto alcun dato obiettivo da cui desumere, in conseguenza dell’emergenza sanitaria, un peggioramento della propria condizione patrimoniale, tale da precluderle l’esecuzione del contratto, limitandosi invece, del tutto genericamente, a richiamare lo stato di emergenza sanitario, ciò che tuttavia contravviene il principio secondo cui ciascuna delle parti ha l’onere di provare i fatti che allega e dai quali pretende far derivare conseguenze giuridiche a suo favore, e pertanto, l’eccessiva onerosità sopravvenuta che ha alterato il rapporto di proporzionalità tra le reciproche prestazioni.

Una riflessione sugli strumenti presenti nell’ordinamento. Il caso di specie però ci porta a riflettere su una situazione contingente dei contratti in essere coinvolti nella fase di esecuzione da circostanze “nuove” talmente pesanti da portare ad una alterazione del sinallagma. Il Codice dei contratti sappiamo prevede delle modifiche limitate di cui all’art. 106, la possibilità di sospendere la prestazione all’art. 107 e di risolvere il contratto all’art. 108, tutti strumenti che l’evento pandemico sono stati ampiamente utilizzati ma che segnano il passo perché tutti legati ad una concezione di evento sopravvenuto episodico e non sistematico come è quello attuale. Nella situazione attuale siamo in presenza di acclarate cause di “forza maggiore”, la riflessione successiva porta ad un’analisi su due fattispecie del Codice Civile, la “impossibilità sopravvenuta” e la “eccessiva onerosità sopravvenuta”, che potrebbero comunque risultare applicabili ai contratti in essere. Del resto l’articolo 30 comma 8 del D.Lgs 50/2016 dispone che “Per quanto non espressamente previsto nel presente codice e negli atti attuativi, alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile”, e pertanto occorre analizzare le conseguenze derivanti all’applicazione del Codice Civile alla fase esecutiva dell’appalto, avendo comunque ben presenti le disposizioni del Codice degli Appalti e un dato certo la normativa e la giurisprudenza non sono esaustive per governare la situazione attuale.

(segue) L’impossibilità della prestazione. L’art. 1672 del Cod. civ. disciplina i casi di impossibilità di esecuzione dell’opera nei contratti di appalto. Esso stabilisce che il contratto si scioglie quando l’esecuzione è divenuta impossibile in conseguenza di una causa non imputabile ad alcuna delle parti. In tal caso il committente deve pagare parte di opera già eseguita, nei limiti in cui è per lui utile in proporzione del prezzo pattuito per l’opera intera. Si tratta di una impossibilità sopravvenuta che deve essere assoluta ed oggettiva, come riconosciuto unanimemente dalla giurisprudenza. Per cui nel contratto di appalto, la mancanza di liquidità del committente non può costituire condizione di impossibilità della prestazione. L’impossibilità sopravvenuta che libera dall’obbligazione (se definitiva) o che esonera da responsabilità per il ritardo (se temporanea), deve essere obiettiva, assoluta e riferibile al contratto e alla prestazione ivi contemplata, e deve consistere non in una mera difficoltà, ma in un impedimento, del pari obiettivo e assoluto, tale da non poter essere rimosso, a nulla rilevando comportamenti di soggetti terzi rispetto al rapporto. L’eventuale difficoltà finanziaria delle parti non può configurarsi quale causa di impossibilità sopravvenuta all’esecuzione del contratto. Ne è prova l’articolo 91 del D.L. 18/2020 che non ha previsto l’impossibilità di rendere le reciproche prestazioni, ma soltanto una limitazione alle responsabilità del debitore. Per cui anche si volesse considerare l’art. 1256, 2° comma del Codice Civile (impossibilità temporanea) devono valere le considerazioni fatte sopra sulla riconducibilità alla “assoluta ed oggettiva impossibilità”, e le difficoltà finanziarie del debitore.

(segue) L’eccessiva onerosità. L’art. 1467 del Codice Civile prevede che, nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, quando la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458 prevedendo altresì che la parte contro la quale è domandata la risoluzione possa evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. Nel contratto di appalto, il rimedio generale dell’art. 1467 è applicabile soltanto se la sopravvenienza derivi da “avvenimenti straordinari ed imprevedibili” diversi dalle fattispecie indicate per il contratto di appalto, in particolare dall’art. 1664. Va segnalato come, proprio per ridurre i rischi derivanti all’appaltatore da contratti di durata, il “vecchio Codice” il D.Lgs 163/2006 aveva previsto all’art.115 una clausola di adeguamento dei prezzi per i servizi e forniture ad esecuzione periodica. La norma non è però presente nel D.Lgs 50/2016, ove all’ 106 comma 1 lettera a) ammette modifiche al contratto per clausole previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi. E va ricordato pure che a tutela dell’appaltatore, l’articolo 133 del D.Lgs 163/2006 prevedeva ai commi 4, 5 e 6, un meccanismo che tenesse conto anche delle oscillazioni dei prezzi dei materiali, parzialmente riproposto all’articolo 106 comma 1 del D. Lgs 50/2016, di cui proprio in questi giorni si discute molto per il cd. “caro acciaio”. La eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per potere determinare, ai sensi dell’art. 1467, la risoluzione del contratto richieda la sussistenza di due necessari requisiti: da un lato, un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto, dall’altro, la riconducibilità della eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari ed imprevedibili, che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale. Il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all’apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l’intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere della imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza. Va però evidenziato come l’onerosità sopravvenuta non produca una “risoluzione automatica” del contratto, perché per giurisprudenza costante ad eccetto dei casi di risoluzione di diritto del contratto (previsti dagli artt. 1454, 1456 e 1457 Cod. Civ.), nessuno dei quali ricorse nel caso in esame, in ogni altro caso la risoluzione del contratto per qualsiasi causa deve essere pronunziata dal giudice e la pronunzia ha carattere costitutivo. Di conseguenza in questi ulteriori casi la risoluzione non può costituire oggetto di eccezione, ma deve formare oggetto di una specifica domanda, eventualmente proposta in via riconvenzionale”. Da ciò discende che in presenza delle condizioni di eccessiva onerosità, la parte tenuta all’adempimento può agire in giudizio per chiedere la risoluzione del contratto. Ma questa conclusione non è quella cui sembra mirare l’articolo 91 del D.L. 18/2020, che incide sul risarcimento del danno da mancato o ritardato pagamento ed eventualmente sugli interessi dovuti, ma non esclude il dovere all’esecuzione della prestazione da parte dei contraenti. Per cui, qualora le stazioni appaltanti ragionino in termini di impossibilità sopravvenuta o eccessiva onerosità si proiettano inevitabilmente verso una conclusione, la risoluzione del contratto, che non sembra la migliore delle soluzioni.

(segue) L’interesse a ricevere la prestazione. Ferma restando una necessaria verifica sui contratti in essere, finalizzata ad analizzare le eventuali pattuizioni stabilite tra le parti nei casi di forza maggiore, è fondamentale verificare l’interesse della stazione appaltante a ricevere la prestazione, e dunque a mantenere il contratto in essere. Infatti “l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta inutilizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione (Cassazione civile, sez. III, 20/12/2007, n. 26959)” (si rammenti che l’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore per causa a lui non imputabile, pur se normativamente non specificamente prevista, è da considerarsi causa di estinzione dell’obbligazione, autonoma e distinta dalla sopravvenuta totale (ex art. 1463 c.c.) o parziale (ex art. 1464 c.c.) impossibilità di esecuzione della medesima, cfr. altresì Cass., 24/7/2007, n. 16315). Per cui, a meno che non si versi in casi limite in cui la stazione appaltante non ha più interesse a ricevere quella prestazione, è da presumersi che gli appalti in essere siano necessari o al funzionamento di questa o, come nel caso degli appalti di lavori, all’ampliamento/manutenzione del patrimonio pubblico. Una eventuale risoluzione dei contratti di appalto, anche qualora legittima, determinerebbe infatti la necessità di stipula di nuovi contratti, con l’attivazione delle apposite procedure. Pertanto, piuttosto che orientarsi sulla risoluzione dei contratti in essere, che potrebbe incidere anche sul corretto funzionamento dell’attività delle stazioni appaltanti (oltre a determinare anche presumibili strascichi legali), potrebbe sembrare maggiormente ragionevole agire secondo le previsioni del Codice degli Appalti. Anche in questo caso, però, analizzando, le varie fattispecie sopra elencate, le problematiche non mancano.

Conclusioni. La sentenza qui commentata apre un ampio spazio di riflessione sulla delicatezza della situazione contingente, caratterizzata da un perpetuarsi di straordinarietà che anche il codice civile non riesce a “governare “ in toto, lasciando alle parti l’onere di verificar ela reale volontà di giungere ad un negoziato basato su quel principio generale della buona fede dei contraenti di cui all’art. 1374 cod.civ. , senza il quale il rischio reale è solo un contenzioso certo senza sicurezza sulla esecuzione di prestazioni che vedono come destinatari noi tutti in un momento di estrema fragilità e vulnerabilità. .